Petrarca,,E quanto poffo, al fine m' apparecchio
Penfando 'l breve viver mio, nel quale
Sta mané era un fanciullo, ed or fon vecchio. Che più d'un giorno è la vita mortale
Nubilo, breve, freddo, e pien di noja: Che può bella parer, ma nulla vale? Quì l'umana fperanza, e quì la gioja: Qu'i miferi mortali alzan la tefta, E neffun fa quando fi viva o moia. Veggo la fuga del mio viver presta, Anzi di tutti: e nel fuggir del Sole La ruina del mondo manifefta, Or vi riconfortate in voftre fole,
Giovani; e mifurate il tempo largo: Che piaga antiveduta assai men dole. Forfe che 'ndarno mie parole fpargo: Ma io v'annunzio, che voi fete offefi Di un grave e mortifero letargo. Che volan l'ore, i giorni, e gli anni, e i mefi; E infieme con breviffimo intervallo Tutti avemo a cercar altri paefi.
Non fate contra 'l vero al core un callo, Come fete ufi; anzi volgete gli occhi, Mentr' emendar potete il voftro fallo. Non afpettate, che la Morte fcocchi; Come fa la più parte: che per certo Infinita è la schiera degli fciocchi. Poi ch' i ebbi veduto, e veggio aperto Il volar, e'l fuggir del gran pianeta; Ond' i ho danni, e'nganni afsai sofferto; Vidi una gente andarfen queta queta,
Senza temer di tempo, o di fua rabbia: Che gli avea in guardia iftorico, o poeta. Di lor par più, che d'altri, invidia s'abbia, Che per fe fteffi fon levati a volo, Ufcendo for della comune gabbia. Contro coftor colui, che fplende folo, S'apparecchiava con maggiore sforzo; E riprendeva un più spedito volo,
A' fuoi corfier raddoppiat' era l'orzo; E la Reina, di ch'io fopra diffi,
Volea d'alcun de fuoi già far divorzo. Udì dir, nor fo a chi; ma 'l detto fcriffi: In questi umani, a dir proprio, ligustri; Di cieca oblivione ofcuri abiffi, Volgerà 'l Sol non pur anni, ma lustri E fecoli vittor d'ogni cerebro:
E vadrà il vaneggior di quefti illuftri. Quanti fur chiari tra Peneo, ed Ebro,
Che fon venuti, ọ verran tolto meno! Quant' in ful Xanto, e quant' in val di Te- bro!
Un dubbio verno, un inftabil fereno
E' voftra fama; e poca nebbia il rompe; E 'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno. Pallan voftri trionfi, e voftre pompe: Paffan le fignorie, passano i regni: Ogni cofa mortal tempo interrompe; E ritolta a' men buon, non dà a' più degni: E non pur quel di fuori il tempo folve, Ma le voftr' eloquenze, e i voftri ingegni. Così fuggendo, il mondo feco volve; Nè mai fi pofa, nè fi arrefta, o torna, Finche v' ha ricondotti in poca polve. Or per chè umana gloria ha tante corna, Non è gran maraviglia, s' a fiaccarle, Al quanto altra l'ufanzo fi foggiorna. Ma che unque fi penfi il vulgo, o parle; Se 'l viver noftro non foffe sì breve, Tofto vedrefte in polve ritornarle. Udito questo (per chè al ver fi deve Non contraftar, ma dar perfetta fede) Vidi ogni noftra gloria al fol di neve: E vidi 'l tempo rimenar tal prede
De' voftri nomi, ch'i gli ebbi per nulla: Benche la gente ciò non fa, nè crede. Cieca, che fempre al vento fi trastulla E pur di falfe opinion fi pafce,
Lodando più 'l morir vecchio, che'n culla.
Petrarca., Quanti felici fon già morti in fafce! Quanti miferi in ultima vecchiezza! Alcun dice; beato è chi non nafce. Ma per la turba a' grandi errori avvezza, Dopo la lunga età fia 'l nome chiaro; Che è questo parò, che si s'apprezza? Tanto vince e ritoglie il tempo avaro: Chiamafi fama, ed è morir feoondo;
Nè più che contra 'l primo, è alcun riparo. Così 'l tempo trionfa i nomi, e 'l mondo.
(Blühendere Poesie, und dabei doch eine petrarchisch sanfte Sprache und Verfifikation finder man im folgenden allegorischen Gedichte des berühmten Abts Pietro Metastas fio, der im Jahr 1699 geboren wurde, und 1782 zu Wien, als kaiserlicher Dichter, starb. Sein größtes Verdienst war die meisterhafteste Bearbeitung der musikalischen Poefie, wos von unten einige Proben vorkommen werden.)
Già l' ombrofa del giorno atra nemica Di filenzio copriva, e di timore L'immenfo volto alla gran madre antica Febo agli oggetti il folito colore
Più non preftava, ed all' aratro appreffo Ripofava lo ftanco agricoltore. Moveano i fogni il vol tacito, e fpeffo, Deftando de' mortali entro il penfiere L'immaginar dell' alta quiete oppresso. Sol io veglio fra cure aspre, e fevere, Com' egro fuol, che trae l'ore inquiete, Nè difcerne ei medesmo il fuo volere. Al fin con l'ali placide, e fecrete
Sen venne il fonno, e le mie luei accefe Dello quallido afperfe umor di Lete. Tosco l'occulto gelo al cor difcefe,
E quel potar, per cui fi vede, e fente, Dall' uffizio del di l'alma fofpefe. Tacquero intorno all' agitata mente L'acerbe cure, e inafpettato oggetto Al fopito penfier fi fè prefente. Parmi in un verde prato effer ristretto, Cui difendon le piante in largo giro Dall' ingiuria del Sol l'erbofo letto. Picciol rufcel con torto piè rimiro, Che defta nel cammin gigli, e viole,
Pingendo il margo d'Oriental zaffiro; Chiaro così, che fe furtivo fuole
I rai Febo inviar fu l'onda molle, Tornan dal fondo illefi i rai del Sole. Dall' un dè lati al pian sovrafta un colle Tutto fcofcefo, e ruinofo al baffo, Ameno poi là, dove il giogo eftolle. Di lucido piropo in cima al faffo
Svavilla un tempio, ch' a mirarlo intento, Lo sguardo ne divien debile e laffo. Veggonfi in varie parti a cento a cento Quei, che per alta disaftrofa ftrada Salir l'eccelfo colle hanno talento. La difficile impresa altri non bada,
Ma tratto dal desio s' inoltra, e fale, Onde avvien poi, che vergognofo cada. Altri con forza al defiderio uguale Supera l'erta; e l'ampia turba imbelle Gracchia; e fi rode di livor mortale. me, che l'alme fortunate, e belle Tant' alte miro, la via fcabra, e ftrana Desio s'accende a formontar con quelle. Qual lionein, che vede dalla tana
Pafcere il fiero padre il fuo furore Nel fianco aperto d'empia tigre Ircana, Anch' ei dimoftra il generofo core; Efce ruggendo, e va lo fparfo fangue Su le fauci a lambir del genitore. Tal io, febbene a tanta imprefa langue L'infermo paffo, per mirar non resto, Chi cada, o nel cader rimanga efangue. E'l giovanil ardor, che mi fa presto,
Oltre mi spinge, e a fceglier non dimoro, Se fia miglior cammin quello di questo. Ma chi dirà l'ingiurie di coloro,
Ch' empiono il baffo giro? Alme invidiofe! Oh al bene oprar nemico infame coro!
In van fperi quel premio, che ripose Alle fatiche il Ciel, s' altro non sei,
Che impaccio alle grand' alme, e generofe.
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