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Guarini.

(Giambattista Guarini, geboren zu Ferrara 1538, ges ftorben zu Venedig 1613, erwarb sich großen Ruhm bei seis ner Nation durch das oft gedruckte, und fast in alle neuere Sprachen mehrmals übersezte Schäferspiel, Il Paftor Fido, welches zunächst durch die Vermählung des Herzogs von Savoyen veranlaßt wurde. Der dramatische Plan dieses Ges dichts hat indeß wesentliche Fehler; auch ist die Wendung des Ganzen allzu romanhaft; einzelne Schönheiten aber, besonders der Sprache, und des Wohlklangs der Verse, und manche glückliche Aeußerungen dichterischer Phantasie und Em pfindung ersehen jene Mängel wenigstens zum Theil. Nur trifft auch die Schreibart der Vorwurf des zu Gekünftelten und Epigrammatischen.)

IL PASTOR FIDO, Atto I. Sc. V.

SATIRO.

Come il gelo à le piante, à i fior l'arsura,
La grandine à le spiche à i femi il verme,
Le reti à i cervi ed a gli augelli il visco.
Così nemico à l'huom fu fempre Amore.
E chi foco chiamallo intefe molto

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„La fua natura perfida, e malvagia.

Che fe'l foco fi mira, ò come è

vago
Ma fe fi tocca, ò come è crudo: il mondo
Non ha di lui più spaventevol mostro,
Come fera divora, e come ferro
Pugne, e trapaffa, e come vento vola,
E dove il piede imperiofo ferma
Cede ogni forza, ogni poter da loco.
Non altrimenti Amor, che fe tu'l miri
In duo begli occhi, in una treccia bionda,
O come alleta, e piace, ò come pare
Che gioia fpiri, e pace altrui prometta.

Beisp. S. 1. B.

Ma

Guarini.

Guarini. Ma fe troppo t'accofti, e troppo il tenti
Sì, che, ferper cominci, e forza aquisti,
Non ha Tigre l'Ircania, et non ha Libia
Leon sì fero, e sì peftifero angue,
Che la fua ferità vinca, ò pareggi,
Crudo più che l'Inferno, e che la Morte
Nemico di pietà, miniftro d'ira,
E finalmente Amor privo d'amore.
Ma che parlo di lui? perche l'incolpo?
E forfe egli cagion di ciò, che'l mondo
Amando nò, ma vaneggiando pecca?
O femminil perfidia, à te fi rechi
La cagion pur d'ogn' amorofa infamia;
Da te fola deriva, e non da lui

Quanto hà di crudo, e di malvagio Amore,
Che'n fua natura placido, e benigno
Teco ogni fua bontà fubito perde.
Tutte le vie di penetrar nel feno,
E di paffar al cor tofto li chiudi.
Sol di fuor il lufinghi, e far fuo nido,
E tua cura, e tua pompa, e tuo dilletto
La fcorza fol d'un miniato volto.
Ne già fon l'opre tue, gradir con fede
La fede di chi t'ama, e con chi t'ama
Contender ne l'amor, ed in duo petti
Stringer un core, e'n duo voleri un' alma.
Ma tinger d'oro un' infenfata chioma,
E d'una parte in mille nodi attorta,
Infrascarne la fronte, indi con l'altra
Tefluta in rete, e'n quelle frafche involta
Prender'il cor di mille incauti amanti,
O come è indegna, e ftomachevol cofa
Il vederti tal'hor con un pennello
Pigner le guancie, et occultar le mende
Di natura, e del tempo, e veder come
Il livido pallor fai parer d'oftro,

Le rughe appiani, e'l bruno imbianchi, e togli
Co'l diffeto il diffeto, anzi l'accrefi.

Speffo un filo incrocicchi, e l'un de' capi
Co' denti afferri, e con la man finiftra

L'altro

L'altro foftieni, e del corrente nodo
Con la destra fai giro, e l'apri, e stringi
Quafi radente forfice, e l'adatti
Su l'inegual lanuginofa fronte:
Indi radi ogni piuma, e fuelli infieme
Il mal crefcente, e temerario pelo
Con tal dolor, ch'è penitenza il fallo:
Ma quefto è nulla, ancor che tanto, à l'opre
Sono i coftumi fomiglianti, e i vezzi.
Qual cosa hai tu, che non fia tutta finta?
S'apri la bocca, menti, fe fospiri,

Son mentiti i fospiri, fe movi gli occhi,
F' fimulato il guardo: in fomma ogn' atto
Ogni fembiante, e ciò che'n te fi vede,
E ciò, che non fi vede, o parli, o penfi,
O vada, o miri, o pianga, ò rida, o canti
Tutto è menzogna; e quefto ancora è poco.
Ingannar più, chi più fi fida, e meno
Amar chi più n'è degno, odiar la fede
Più de la morte affai; quefte fon l'arti,
Che fan sì crudo, e sì perverfo Amore.
Dunque d'ogni fuo fallo è tua la colpa.
Anzi pur ella è fol di chi ti crede:
Dunque la colpa è mia, che ti credei
Malvagia, e perfidiffima Corisca,
Qui per mio danno fol, cred' io venuta
Da le contrade fcelerate d'Argo,
Ove luffuria fa l'ultima prova.
Ma fi ben fingi, e fi fagace, e fcorta
Se'nel celar altrui l'opre, e i pensieri,
Che tra le più pudiche hoggi t'en vai
Del nome indegno d'honeftate altera.
O quanti affanni ho foftenuti, o quante
Per quefta cruda indignità fofferte.
Ben me ne pento, anzi vergogno. Impara
Da le mie pene, o malaccorto amante:
,,Non far idolo, un volto, ed a me credi;
„Donna adorata un nume è del' Inferno,
„Di se tutto prefume; e del fuo volto
»Sovra te, che l'inchini, e quafi Dea;

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Guarini,

"

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Guarini. Come cofa mortal ti fdegna e schiya,
Che d'effer tal per fuo valor fi vanta,
,,Qual tu per tua viltà la fingi, ed orni.
Che tanta fervitù? che tanti preghi,
Tanti pianti, e fospiri? ufin queft' armi
Le femmine, e i fanciulli, e i noftri petti
Sien' anche ne l'amar virili, è forti,
Un tempo anch'io credei, che fospirando,
E piangendo, e pregando in cor di donna
Si poteffe deftar fiamma d'amore :

Hor me n'avveggio, errai; che f'ella il core
Ha di duro macigno; indarno tenti,
Che per lagrima molle, ò lieve fiato
Di fospir, che'l lusinghi, arda ò sfaville,
Se rigido focil no' batte, o sferza
Lafcia, lafcia le lagrime, e i fospiri,
S'acquifto far de la tua donna vuoi:
E s'ardi pur d'ineftinguibil foco.
Nel centro del tuo cor quanto più sai
Chiudi l'affetto, e poi fecondo 'l tempo
Fa quel ch' Amore, e la Natura infegna,
Però che la modeftia è nel fembiante
,,Sol virtù de la donna; e però feco
,,Il trattar con modeftia è gran diffeto:
„Ed ella che fi ben con altrui l'ufa,

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Secó ufata l'ha in odio; e vuol che'n lei
La miri fi, ma non l'adopri il vago.
Con quefta legge naturale, e dritta,
Se farai per mio fenno amerai fempre.
Ma non vedrà nè proverà Corisca
Mai più tenero amante; anzi più tosto
Fiero nemico, e fentirà con armi
Non di femmina più, ma d'huom virile
Affalirfi, e trafiggerfi. Due volte
L'ho prefa già quefta malvagia, e fempre
M'è (non fò come) da le mani ufcita:
Ma f'ella giugne anco la terza al varco,
Ho ben penfato d'afferrarla in guifa
Che non potrà fuggirmi. A punto fuole
Tra quefte felve capitar fovente;

Ed

Ed io vo pur come fagace veltro
Fiutandola per tutto: o qual vendetta
Ne vo far fe la prendo, e quale ftrazio.
Ben le farò veder, che tal'hor anco

Chi fu cieco apre gli occhi; e che gran tempo
De le perfidie fue non fi da vanto
Femmina ingannatrice, e fenza fede.

CHORO.

O nel feno di Giove alta, e poffente

Legge fcritta, anzi nata;

La cui foave, ed amorofa forza,
Verfo quel ben, che non intefo fente

Ogni cofa creata,

Gli animi inchina e la natura sforza:
Ne pur la frale scorza,

Che'l fenfo a pena vede, e nafce, e more
Al variar de l'hore;

Ma i femi occulti, e la cagion interna,
Ch'è d'eterno valor, move, e governa.

E fe gravido è il mondo, e tante belle
Sue maraviglie forma,

E fe per entro à quanto fcalda il fole,
A l'ampia Luna, a le Tiranie ftelle,
Vive spirto che❜n forma

Col fuo mafchio valor l'immensa mole:

S'indi l'humana prole

Sorge, e le piante, e gli animali han vita:

Se la terra è fiorita,

O fe canuta hà la rugofa fronte,

Vien dal tuo vivo e fempiterno fonte.

Nè questo pur, ma ciò che vaga fpera

Verfa fopra i mortali,

Onde qua giu di ria ventura, ò lieta
Stella s'addita, hor manfueta, hor fera,
Ond' han le vite frali

Del nafcer l'hora, e del morir la meta:

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