Imágenes de páginas
PDF
EPUB

Ariosto.

Poffo fperar di prendere, f'io pesco
Or odi quanto a ciò ti rispond'io.
Io ti ringrazio prima, che più frefco
Sia fempre il tuo defire in efaltarmi,
F far di bue mi vogli un barbarefco.
Poi dico, che pel foco e che per l'armi
A fervigio del Duca in Francia e'n Spagna
E'n India, non che a Roma, puoi mandarmi.
Ma per dirmi, che onor vi fi guadagna
E facultà, ritrova altro zimbello,
Se vuoi che l'augel cafchi nella ragna.
Perche quanto all' onor n' ho tutto quello
Ch'io voglio; bafta che in Ferrara io veggie
A più di fei levarmifi il capello;
Perche fan, che talor col duca feggio

A menfa, e ne riponto qualche grazia,
Se per me o per gli amici gli la chieggio.
E fe, come d'onor mi trovo fazia

La mente, aveffi facultà abaftanza
Il mio defir fi fermeria, ch'or fpazia.
Sol tanta ne verrel, che viver fanza
Chiederne altrui mi foffe in libertade
Il che ottener mai più non ho fperanza;
Poiche tanti miei amici podeftade

[ocr errors]

Hanno avuto di farlo, pur rimaso
Son fempre in fervitude, e in povertade.
Non vo' più che colei, che fu del vafo
Dell' incauto Epimetto a fuggir lenta,
Mi tiri, come un bufalo, pel nafo.
Quella rota dipinta mi fgomenta

Ch' ogni maftro di carte a un modo finge,
Tanta concordia non cred'io che menta.
Fuel che le fiede in cima fi dipinge

Uno afinello, ogn'un lo enigma intende
Senza che chiami a interpetrarlo sfinge.
Vi fi vede anco che ciafcun che afcende
Comincia a inafinir le prime membre,
E refta umano quel che a dietro pende.
-Finche della fperanza mi rimembre,
Che coi fior venne e colle prime foglie,
E poi fuggì fenza afpettar fettembre:

Venne il dì che la chiefa fu per moglie
Dată a Leone, ed alle nozze vidi
A tanti amici miei roffe le spoglie:
Venne a calende, e fuggì innanzi agli idi:
Finche mene rimembre, effer non puote
Che di promeffa altrui mai più mi fidi.
La fciocca fpeme alle contrade ignote
Sali dal ciel quel dì che 'l paftor fanto
La man mi ftrinfe, e mi baci le gote;
Ma fatte in pochi giorni poi di quanto
Potea ottener le fperienze prime,

Quanto ando' in alto, in giù tornò altrettante;
Fu già una zucca che montò fublime
In pochi giorni, tanto che coperfe
A un pero fuo vicin l'ultime cime,
Il pero una mattina gli occhi aperfe,
Ch' avea dormito un lungo fonno, e vifti
I nuovi frutti ful capo federfe,

Le diffe: Chi fei tu? come falisti

Quaffù? dov' eri dianzi? quando, laffo,
Al fonno abbandonai queft' occhi tristi!
Ella li diffe il nome e dove al basso

Fu piantata moftrolli; e che in tre mefi
Quivi era giunta, accelerando il paffo.
Ed io, l'arbor foggiunfe, appena afcefi
A queft' altezza, poiche al caldo e al gelop
Con tutti i venti trent'anni contefi.

Ma tu, ch'a un volgar d'occhi arrivi in cielo
Renditi certa, che non meno in fretta
Che fia crefciuto, mancherà il tuo ftelo.
Cofi la mia fperanza, che a ftaffetta
Mi traffe a Roma potea dir, ch'io avuto
Per Medici ful capo avea l'accetta.
Chi gli avea nell' efilio fovvenuto,
O chi a riporlo in cafa, o chi a crearlo
Leon d'umil agnel gli diede ajuto.
Chi aveffe avuto lo fpirto di Carlo
Sofena allora, avria a Lorenzo forfe
Detto, quando fentì duca chiamarloj
Ed avria detto al Duca di Nemorfe

Ariosto.

ΑΙ

Ariosto.

Al Cardinal de Roffi ed al Bibiena,
A cui meglio era effer rimafo a Torfe;
E detto a Contefina e a Maddalena

Alla nuora alla fuocera ed a tutta
Quella famiglia d'allegrezza piena:
Quefta fimilitudine fia indutta

Più própria a voi, che, come voftra gioja
Tofto montò, tofto farà diftrutta.
Tutti morrete, ed è fatal che muoja
Leone appreffo, prima ch' otto volte
Torni in quel fegno il fondator di Troja;
Ma per non far, fe non bifognan, molte
Parole, dico che fur fempre poi
Le avare fpemi mie tutte fepolte.
Se Leon non mi die, che alcun de fuoi

Mi dia non fpero: cerca pur quest' amo
Copririd'altr'efca, fe pigliar mi vuoi.

Se pur ti par ch' io vi debbo ire; andiamo;
Ma non già per onor ne per ricchezza:
Quefta non fpero, e quel di più non bramo.'
Più tofto dì ch' io lafciari l'afprezza

Di questi faffi e questa gente inculta
Simile al luogo, ov'ella e nata e avvezza:
E non avrò qual da punir con multa,
Qual con minaccie e da dolermi ogn'ora
Che qui la forza alla ragion infulta:
Dimmi ch' io potrò aver ozio tal ora

Di riveder le mufe, e con lor fotto
Le facre frondi ir poetando ancora:
Dimmi che al Bembo al Sadoleto al dotto

Giovio al Cavallo al Blofio al Molza al Vida.
Potrè ogni giorno e al Tibaldeo far motto.
Tor d'effi or uno e quando un altro guida
Poi fette colli, che col libro in mano
Roma in ogni fua parte mi divida.
Qui, dica, il circo, qui il foro Romand
Qui fu Saburra, è quefto il facro clivo,
Qui Vefta il tempio e qui folea aver Jano:
Dimmi ch' avrò di ciò ch' io leggo o fcrivo
Sempre configlio, o da latin quel torre,
Voglia o da Tofco o da barbato Argivõ.

ᎠᎥ

1

Ariostor

Di libri antiqui anco mi puoi preporre
Il numer grande, che per pubblico ufo
Sifto da tutto il mondo fe raccorre.
Proponendo tu quefto, f'io ricufo
L'andata, ben dirai che trifto umore
Abbia il difcorfo razional confufo.
Ed in rifpofta, come Emilio, fuore
Porgerò il piè, e dirò: tu non fai dove
Quefto calzar mi prema e dia dolore.
Da me fteffo mi tol chi mi rimove

[ocr errors]

Dalla mia terra, e fuor non ne potrei
Viver contento, ancorchè in grembo a Giove,
E, f'io non foffi d'ogni cinque o fei.

Mefi ftat'ufo a paffeggiar fra il duomo
E le due ftatue de Marchefi miei,
Da sì nojofa lontonanza domo

Già farci morto, o più di quelli macro
Che ftan bramando in purgatorio il pomo
Se pur ho da ftar fuor mi fia nel facro
Campo di Marte ferza dubbio meno,
Che in quefta foffa, abitar duro ed acro.
Ma fe'l fignor vuol fanni grazia a pieno,
A fe mi chiami; e mai più non mi mandi
Più la d'Argenta, o più qua dal Bondeno,
Se, perche amo sì 'l nido, mi dimandi,
Jo non te lo dirò più volentieri,
Ch'io foglia al frate i miei falli nefandi.
Che fo ben che direfti: ecco penfieri
D'uom che quarantanove anni alle spalle
Groffi e maturi fi lafciò l'altr'ieri.

Buon per me ch' io m'afcondo in questa valle
Ne l'occhio tuo può correr cento miglia
A fcorger, fe le guancie ho rofle o gialle.
Che vedermi la faccia più vermiglia
Bench' io fcriva da lunge, ti parrebbe,
Che non ha madonna Ambra, ne la figlia,
O che il padre Canonico non ebbe

[ocr errors]

Quando il fiafco del vin gli cadde in piazza,
Che rubo' al frate oltre li dui che bebbe,

Ariosto. S' io ti foffi viçin, forse la mazza
Per baftonarmi piglierefti tofto

Alamanni.

Che m'udiffi allegar, che ragion pazza
Non mi lafci da voi viver discosto.

2. A la manni.

(Von diesem; schon oben vorgekommenen, Dichter mås Chen zwölf Satiren das dritte Buch der von Sansovino gesammelten Sette Libri di Satiré aus, die sich durch viele innere Vorzüge auszeichnen; nur ist ihre Schreibart nicht ganz dieser Gattung angemessen, weil sie oft allzu poetisch wird. Der Inhalt der meisten besteht aus Klagen über feine verlorne Freiheit, indem er sie während seinct Verbannung, in Frankreich schrieb. Folgende ist die siebente darunter; und an Giuliano Buonaccorsi; Schahmeister in der Proz vence, gerichtet. Er schildert darin die Treulosigkeit der meisten Freunde in widrigen Schicksalen.)

Quanto
Quanto più il mondo d'ogn' intorno guardo;
Onorato Giulian, più d'ora in ora

Di voi fempre lodar mi ftruggo ed ardo;
E veggio più quanto dal volgo è fuora
L'invitta onefta e chiara cortefia;

Che, come in proprio albergo, in voi dimora.
Veggio, e per prova il fo, quant' ella fia
Da pregiar oggi più, quant' è più rara,
E quanti ha men per la fua dritta via.
Come il fent' io? come la coppia cara
Meco il confente? che fuggiam per lei
Due già di morte, e l'un da vita amara:

Se

« AnteriorContinuar »