E fenza rimirarfi entro agli specchi, Si ritraggono giufti, e naturali.
Par che dietro al Baffan 8) ciafcuno invecchi, Rozzo pittor di Pecore, e Cavalle,
E Eufranore, 9) e Alberto 10) han negli orecchi E fon le Scuole loro mandre, e ftalle,
E confumano in far, l'etadi intere, Bifcie, Rafpi, Lucertole, e Farfalle. E quelle beftie fan fi vive e fiere,
Che fra i Quadri e i Pittor fi refta in forfe Quai fian le beftie finte, e quai le vere. Vi è poi talun, che col pennel trafcorfe A dipinger Faldoni e Guitterie, 11) E Facchini, e Monelli, e Tagliaborse, Vignate, Carri, Calcate, Ofterie,
Stuolo d'imbriaconi, e Genti ghiotte, Tignofi, Tabaccari, e Barberie: Nigregnacche, Bracon, Trentapagnotte: Chi fi cerca Pidocchi, e chi fi gratta, E chi vende ai Baron le Pere cotte. Un che pifcia, un che caca, un che alla Gatta Vende la Trippa: Gimignan, che fuona; Chi rattoppa un boccal, chi la ciabatta, Nè crede oggi il Pittor far cofa buona, Se non dipinge un gruppo di ftracciati, Se la Pittura fua non è barona.
E quefti Quadri fon tanto apprezzati, Che fi vedon de' Grandi entro gli studi Di fuperbi ornamenti incorniciati, Così vivi, mendichi afflitti e nudi Non trovan da coloro un fol danaro, 'Che ne' dipinti poi spendon gli scudi.
8) Francesco da Ponte, detto Il Bassano, famofo pittore. 9) Pittore Greco.
10) Alberto Durer, celeberrimo pittore e scultore Te
11) Faldoni vuol dire Plebei; Guitterie, luogo, dove fi radunano li Guidoni, fordidi, etc.
Così ancor ie da quelli ftracci imparo, Che dei moderni Principi l'iftinto Prodigo è ai luffi, alla pietade avaro. Quel che abborrifcan vivo, aman dipinto: Perche omai nelle Corti è vecchia ufanza
Di avere in prezzo folamente il finto.
(Einer der besten und berühmtesten italianischen Dichter des vorigen Jahrhunderts, geboren 1646, gestorben 1704. Das Verdienst seiner mit Recht sehr geschäßten zwölf Satisl ren liegt vornehmlich in einer sehr lebhaften, oft kühnen Wendung der Gedanken, und in einer großen Energie des Ausdrucks, den dieser Dichter überall sehr in seiner Gewalt hatte.. In der Ausgabe seiner sämmtlichen Werke, die zu Venedig 1769 in vier Bånden in gr. 12. gedruckt ist, finde ich feine Satiren nicht; sie sind aber mehrmals einzeln her ausgekommen, und von dem Marchefe de Guasco kommen tirt worden. Ein faubrer Abdruck in klein 4. den ich davon vor mir habe, hat bloß den Titel: Satire del Menzini, und ist ohne Angabe der Jahrszahl und des Druckorts. Die folgen. de, in der Ordnung die zwölfte, bestraft die. Thorheit und Unbesonnenheit der menschlichen Wünsche.)
Quanto ne voti fuoi delira il mondo! Ben vi ha più d'un, che fu dal cielo impetra Ciò, che negato il renderia giocondo.
E talun muove una montana pietra
Per difcoprir l'acciajo, e incauto apprefta Contro fe i dardi nell' altrui faretra.
Bonden mio caro, è gran follia pur quefta, Che nel cervello uman pullula, e forge,
Di bramar quel, ch' altrui turba e molesta. Ecco Fronton al ciel fuoi voti porge,
Per avere un figliuol di fua conforte, Che poi crefciuto contro il Padre inforge. Quindi fi vede per fua mala forte
Calar del Brefchi all' orrido zimbello, E pofcia riportarne infamia, e morte. E colle fcope dietro, e col cartello Andarfene mitrato a porre in
E crocifero fuo farfi il bargello. Un altro avere una zitella agogną
In moglie, e 'l ciel ne prega, e poi conofce, Ch' infatti è follenniffima carogna, Che le poppacce fue pendenti, e flofce Moftran, che quefta nuova Poliffena Sin d'undici anni ella allargò le cofce. In fe per quefto io non avrò mai piena La man d'incenfo, e voi ftarete, o numi, Quafi fcornati in folitaria fcena. Oh mal fpefi per me Panchei profumi! S' altro chieder non fo, meglio farebbe, Che in qualche fogna, o i' vi getṭaffi a' fiumi, So, che qualche baron forfe direbbe,
Che facrilego è quefti, che gl'incenfi Maltratta, un ateifta effer ci debbe. Dica ciò, ch' egli vuol, dicalo, e penfi, Che chiunque non dà dell' incenfate In dio non poffa aver gli affetti intenfi. Se camicia ho l'inverno, e fe la state Un forfo d'acqua; l'Indica miniera Non chieggio ad arricchir la povertate,
Non fon Quintilian, che fi difpera,
S'egli non entra in corte; entravi, e acerba Sorte fa sì, che poi di rabbia e pera.
Che ad allacciar la cupida e fuperba Mente di noi mortali, il vizio stesso Sempre per noi qualche galappio ferba,
E talun brama effer tenuto appreffo
Le genti un qualche favio, e al fin s' avvede, Che dal moftro d'invidia ci refta oppreffo,
Odi Tognetto, che ad Apollo chiede Arch' ei d'effer poeta, e meglio forą Gettar 'n un ceffo le Pierie fchede. Che della patria mendicando fuora
Non fi vedrebbe andar cenciofo, e scalzo, Nè come чom tratto d'una morta gora. Così giuoca fortuna, e attende al balzo Le voglie de' mortali, e loro intorno Leva pofcia da fenno ogni rincalzo. Chi l' umil ftato fuo fi prende a fcorno, E dolor fente al cuor di non potere La crefta alzar fopra degli altri, e'l corno, Coftui potrebbe anco bifogno avere
D'elleboro affai più, che un tal girullo, Che beve, e infieme inghiotte anco il bicchiere, E ben ftarebbe spennacchiato, e grullo Entro un gabbione a canto della Mela, Dov' ebbe il buon Pandolfo altro traftullo. Ciò che voglia il deftino, a noi fi cela, E non fappiam di quefta torbid' onda, S'ella rinfresca, o pur f'ella dipela, E talvolta fi moftra altrui feconda
La forte, perchè poi più d'alto caggia, Chi ne' ben di quaggiù fua fpeme fonda. E fa com' uom, che altrui lufinga, e piaggia, Poi te l'azzecca, c' non è lucid'oro
Ciò, che rifplende, e al nostro fguardo raggia, Anime grandi, il voftro nome adoro
Se alcun pur v'è, che tal prenda configlio Di far della virtude almo teforo. Non chiamo io qui virtù, col fopracciglio Saper con Cingiglion lodar la fava, O fara un fonettin fopra un coniglio. Ne foper come Dio Priapo ftava Efpofto a favorir donne Romane, Quando d'effe qualcuna a fpofo andava. Lafcio di quefto dalla fera a mane Penfare a Don Teglione, e fe Dufille, O fe Clelie, o Cluilie a dir rimane. Virtù quella chiam' io, che mille e mille
Spade non teme, e che di fe fa fcudo, Dovunque alma ragione il passo aprille. Virtù chiam' io, che 'l petto ancor chè nuda Offre agli affanni, e a vincerla non basta Falaride, o Neron fpietato, e crudo. Ma a noi la pace il reo defir contrasta, E mesce in coppa d'oro atro veleno D'una più fitibonda empia cerafta. E vogliam poi, che fufo in ciel non stieno A fmafcellar di rifa? Eh cheggiam quello, Senza di cui fariem felici appieno.
Perchè non chiedi, che ridente e bello, E fia ben faldo del tuo cuor lo fpecchio, E ammetta in fe della bontà fuggello? Tu chiedi di poter anco col fecchio
Bere il vin di tre vigne, ed il frumento Del nuovo Giugno accumulare al vecchio; Quafi a fedare il natural talento
Non bafti un fol fiafchetto, una pagnotta, E di Pontormo a menfa il frale argento. E tu vorrefti, alla Peruvia flotta
Ti fpianaffe il Colombo, ed Americo La dubbia ftrada, che già parve rotta. Che fe tu chiedi d'effer ricco, io dico,
Che 'l facci, ad effer poi cortefe, e umano
A più d'un Iro, che ne va mendico.
Ma veggio, che non preme a fer vorano, Che 'l popolo lo chiami un raugeo,- Un vil taccagno, un Aretin marrano. Che importa avere un nome infame e reo? Pur ch'abbia traboccata la bigoncia, Chiaminlo Ginevrin, chiaminlo Ebreo. Almen di lui fi fa l'usanza fconcia D'aver dipinta la giustizia in faccia, E poi fognar lo ftajo, e intaccar l'oncia, Ma Lombardo la cui falta barbaccia
Ha intimato alle ftufe eterna feria,
E di che penfi, che egli vada in traccia? E dice genufleffo o fanta Egeria,
Jo fon pur il tuo Numa: Qr d'effer Vefco
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