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non laboret, cioè non si affatichi a parlar molto. Potrebbe anch' essere un avvertimento al poeta di servire in questo al comodo degl'istrioni, siccome lo ha consigliato a rispettare le assuefazioni del popolo nelle divisioni degli Atti. Perchè forse il numero degl' istrioni continuava ancora, al tempo d' Orazio, a non eccedere il numero di tre, al quale avea attribuito Aristotile il perfetto compimento degli attori d' un dramma: i quali, dovendo per avventura rappresentare maggior numero di personaggi, avean bisogno del tempo per travestirsi.

E, quando il precetto non convenisse a veruna di queste due interpretazioni; sarebbe sempre un prudentissimo consiglio al poeta drammatico di non impegnarsi facilmente a far parlare insieme molti personaggi in una scena medesima: perchè bisogna lunga pratica e molto giudizio per sapere evitare in tai casi o l'ozio di alcuni o la confusione di tutti; come più diffusamente ho spiegato nel fine del sopra citato Cap. XII dell' Estratto della Poetica d' Aristotile, al quale mi riferisco.

(v. 193.) Actoris partes ec. Perchè Aristotile ha detto che tutto il Coro debba considerarsi come un Attore della tragedia; credono alcuni che questo passo nulla di più significhi. Ma io son del sentimento de' dottissimi Dacier e Sanadon, che riconoscono in questo precetto d'Orazio le due funzioni, che nelle greche e nelle latine tragedie visibilmente esercita il Coro: ora sostenendo ne' Tomo XV.

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dialoghi, per mezzo di una sola delle persone, che formano il Coro, la parte d'un solo Attore; ed or l'ufficio di distinguere gli Atti fra loro, cantando insieme negl' intervalli de' medesimi tutte le persone, delle quali il Coro è composto. La prova convincente di questa verità è la semplice lettura delle antiche tragedie, nelle quali si conosce che sarebbe stato inverisimile, ridicolo, anzi impraticabile, che ne' dialoghi d' un solo attore col Coro, le sollecite, brevissime per lo più, vicendevali dimande e risposte dovessero essere alternate fra una voce sola, e dodici, o quindici unite.

Ma non posso in conto alcuno accordarmi all'opinione de' citati Dacier e Sanadon, che, spiegando questo passo d' Orazio, decidono assolutamente che nel Coro consiste tutto il verisimile della tragedia: anzi che affatto più tragedia non possa dirsi quella che manca del Coro. Le invincibili ragioni, per le quali io dissento da loro, nascono dalla cognizione dell' origine, della natura e delle variazioni sofferte dal Coro: e sono largamente esposte nel disopra citato Cap. XII dell'Estratto della Poetica d' Aristotile: onde è qui superfluo il ripeterle.

(v. 202.) Tibia non ut nunc ec. In questo, e ne' seguenti diciassette versi espone Orazio come degenerò dalla sua prima lodevole semplicità in Roma anche il teatro, secondando l'eccessivo lusso e la smoderata licenza, che andarono a poco

a poco corrompendo i costumi del popolo romano, a misura del felice progresso della sua potenza. E dice che non solo il teatro, le vesti, gl' istrumenti musicali e la musica istessa soffersero alterazione, ma lo stile insieme de' poeti tragici: i quali, volendo mostrarsi troppo elevati, sentenziosi e quasi presaghi del futuro, divennero tumidi ed oscuri, al pari degli oracoli di Delfo.

Fra le spiegazioni, che possono darsi ai tre versi 217, 218, 219 io son convinto dall'ordine istesso del raziocinio d' Orazio che questa, da me adottata, sia la più certa e la più naturale.

(v. 220.) Carmine qui tragico ec. Impiega qui Orazio trenta versi per dar regole a' Romani, da osservarsi nel comporre una specie di tragedia satirica inventata ed usata da' Greci, che ce ne hanno lasciato un esempio nel Ciclope d'Euripide: ma potendosi argomentare che non fosse in pratica fra' Latini, per non esserne a noi rimasto esempio o frammento alcuno; parrebbe (come a molti in fatti è paruto) del tutto inutile questo insegnamento. Per assolvere Orazio da tale accusa, basta riflettere che i primi greci inventori di cotesto satirico spettacolo non ebbero altro oggetto (aggiungendolo sempre al fine d'una serie tragedia) se non se quello di rallegrare e sollevare il popolo dalle tetre e funeste idee nella prima concepite, con una seconda giocosa e piacevole rappresentazione. Or l'oggetto medesimo, se non la medesima satirica tragedia, si proposero

egualmente i Romani, aggiungendo anch'essi al fine dello spettacolo tragico qualche specie di farsa ridicola, che per lo più commedia atellana chiamavasi e siccome i Greci conservavano nello stile scherzevole di coteste loro satiriche tragedie una specie di modesta decenza, che scendeva bensì dalla sublimità tragica, ma non cadeva però nella bassessa e nell'oscenità delle commedie comuni, ha voluto Orazio e con le ragioni e con l'autorità dell' esempio, inspirare a' suoi Romani quella verecondia, e quella moderazione medesima nelle loro Atellane, o altre, qualunque fossero, giocose rappresentazioni, che alle serie si accompagnavano.

(v. 227.) Ne quicunque Deus ec. Per intender questo ed i due seguenti versi, convien ridursi a memoria le antiche gare degli autori tragici in Atene quando si trattava di scegliere per la pubblica rappresentazione quella delle tragedie da diversi autori composte, che più degna ne stimassero i giudici a ciò deputati; era obbligo di ciascuno de' concorrenti autori lo scrivere quattro tragedie, delle quali i soggetti fossero quattro differenti azioni, ma d'un medesimo Eroe: la quarta di queste era la tragedia satirica, destinata a rallegrare il popolo: e tutte insieme cadevano sotto il nome comune di tetralogia. Vuole dunque Orazio, che il breve dramma destinato a sollevare gli spettatori dalla mestizia delle funeste antecedenti rappresentazioni, passasse bensì dal serio al

giocoso, ma non precipitasse però d'un salto nella scurrile licenza delle più scostumate commedie: e ne rende visibile la mostruosità, esemplificandola in quella che cagionerebbe il vedere trasformato in un tratto e di vesti e di linguaggio e di costumi in vilissimo bottegaio quell' Eroe medesimo che nella seria tragedia si era in maestà poc' anzi veduto avvolto fra l' oro e la porpora.

(v. 234.) Non ego inornata ec. In questo e ne' sedici seguenti versi è incontrastabile che Orazio non parla d' altro che di quella elocuzione la quale crede convenevole alla specie di tragedia satirica, di cui qui particolarmente si tratta; e dice che se dovesse egli esserne scrittore, per distinguersi dalla elocuzione delle serie tragedie, non si crederebbe obbligato di rinunciare all'uso delle parole ornate e metaforiche, di modo che il Sileno, seguace e custode d' un Dio, parlasse lo stesso vile e basso linguaggio, nel satirico dramma da lui scritto, che parlano nelle commedie i servi e le fantesche sfacciate: ma che egli si formerebbe bensì uno stile o linguaggio composto di voci note e comuni, ma ordinate, connesse e collocate con tale artificio, che sperasse ciascuno, ascoltando, d'esser abile a far lo stesso, ma non gli riuscisse alla prova. Ed asserisce che le parole ancor note e comuni, usate, collocate, ordinate e connesse con arte dall'ingegnoso scrittore possono acquistar quella nobiltà, quella forza e quello splendore che per se stesse non hanno. Tale è visibilmente il necessario,

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